Marco Fabio QUINTILIANO (35 - 96)

Vita


Marco Fabio Quintiliano nacque a Calahorra, in Spagna, fra il 35 ed il 40. Figlio di un maestro di retorica, egli venne a Roma con il padre e qui studiò grammatica e retorica. Nei primi anni dell'impero di Nerone, Quintiliano ritornò in patria dove aprì una scuola e divenne abbastanza famoso. Nel 68 l'imperatore Galba lo conduceva nuovamente a Roma: era il periodo in cui quattro imperatori si contendevano l'impero, ma egli riuscì a tenersi lontano dalla guerra civile. Nell'Urbe Quintiliano aprì una scuola di oratoria e nel 74 l'imperatore Vespasiano lo riconobbe come professore di retorica dello Stato e gli conferì la dignità  consolare.
Quintiliano fu così il primo professore stipendiato dallo Stato e, dobbiamo dire, pagato anche bene se riceveva 100.000 sesterzi l'anno. Certamente egli si meritò la fama che ebbe: dalla sua scuola, infatti, uscirono grosse personalità , come, ad esempio, Plinio il Giovane.
Egli si allineò in tutto al regime dei Flavi e lo possiamo definire il tecnico e portavoce ufficiale: mostra, ad esempio, una grande asprezza nei riguardi dei filosofi solo perché i Flavi li perseguitavano. Dobbiamo dire , però, che egli lo faceva anche per il proprio interesse; infatti gli scettici e gli stoici, con le loro opere e con la loro filosofia, contribuivano allo sfaldamento dell'impero e se questo fosse avvenuto, Quintiliano avrebbe perso la cattedra di insegnamento e con essa il lauto stipendio. Quando Quintiliano si ritirò dall'insegnamento, Domiziano gli affidò i suoi due nipoti (che un giorno avrebbero dovuto succedergli).
Quintiliano fu famoso, oltre che come educatore, anche come avvocato; anzi dobbiamo dire in uguale misura. Della sua attività  forense, però, non rimane traccia perché egli si rifiutò di pubblicare le sue orazioni, anzi disconobbe due raccolte pubblicate a cura dei suoi discepoli.
Marco Fabio Quintiliano morì nell'anno 96.

Opere


Si dedicò invece alla stesura di trattati sull'arte oratoria, il "De causis corruptae eloquentiae", che purtroppo è andato perduto, e la "Institutio oratoria", pubblicata tra il 93 ed il 96, opera basilare per l'educazione della retorica, il cui testo integrale fu scoperto da Poggio Bracciolini nel XV secolo.
Nell'opera perduta egli attribuisce la causa della decadenza dell'eloquenza alla scuola; ma sostiene che ormai anche la società  non è più quella di una volta, lo spirito si è infiacchito, non ci sono più gli ideali di un tempo.
Ora passiamo ad esaminare l'opera che ci è giunta. Essa è divisa in 12 libri, che vediamo in rapida sintesi:
- nei primi due si parla di pedagogia, limitatamente a quanto serve al fanciullo per l'insegnamento dell'oratoria;
- dal terzo al nono si trattano le parti dell'oratoria (inventio, dispositio, elocutio, memoria ed actio) alla maniera di Cicerone;
- nel decimo libro l'autore raccomanda di leggere alcuni autori sui quali da anche un giudizio; questo libro, dunque, è molto utile per conoscere meglio la letteratura latina e greca fino al tempo di Quintiliano;
- negli ultimi due viene fatto il ritratto dell'oratore ideale.
Questa opera è dedicata a Vittorio Marcello per l'educazione del figlio Geta. A differenza dei trattati ciceroniani, i quali impostano il problema solo dal punto di vista letterario, l'opera del nostro Quintiliano affronta le varie questioni con orizzonti culturali più ampi, trattando con interesse anche le disciplini affini e limitrofe. Egli infatti affida all'avvocato una missione civile ed umana della quale deve rendersi degno attraverso una perfezione morale che è presupposto di quella oratoria. Sembra che non voglia fare dei suoi allievi soltanto degli ottimi avvocati, ma soprattutto galantuomini. Questa è infatti la qualità  più grande! La potenza della parola può essere posta al servizio della malvagità  e se ciò avvenisse niente sarebbe più dannoso per gli interessi pubblici dell'eloquenza e chi apporta aiuto al talento oratorio di un malvagio rende all'umanità  un servizio peggiore di chi avesse fornito di armi un brigante piuttosto che un soldato: quindi l'oratore deve essere un galantuomo che sa parlare, come aveva detto Catone il Censore.
Quintiliano vuole che la fiducia sorregga sempre l'educatore: quindi la sua pedagogia è improntata all'ottimismo, e se i risultati non corrisponderanno alle speranze, la colpa non è dell'indole del fanciullo, ma della scarsa attenzione degli educatori.
Per l'autore, un buon oratore deve essere saggio e consumato e deve sapersi destreggiare nella vita pubblica; per questo ci vuole una buona preparazione culturale ed il fanciullo prima di andare alla scuola di retorica, deve avere un'informazione generale su tutto.

Giudizio


Quintiliano ha una visione abbastanza limitata delle cose; infatti egli vede come perfetto oratore Cicerone, ma non riesce a capire che quel genere di oratoria era possibile in un clima di libertà  repubblicana. Sotto Domiziano, invece, non c'è più quella libertà : ora si è passati al servilismo verso gli imperatori. Così egli mostra un sostanziale distacco della scuola dalla società : vede leggi ferree valide per ogni tempo e nel tentativo di resuscitare Cicerone per metterlo nel bel mezzo della sua società , dimostra chiaramente che, oltre ad essere un virtuoso della parola, non è altro. L'Arpinate, infatti, se fosse vissuto al tempo di Quintiliano, non avrebbe fatto altro che mostrare la sua valentia oratoria in questioni di poco conto. Però tenendo conto di alcuni precetti tuttora attuali e la sua forma corretta, possiamo assolverlo.

Stile


La logica vorrebbe che lo stile di Quintiliano fosse quello di Cicerone, ma non è affatto così. Esso, al contrario, somiglia più a quello di Seneca; il latino di Marco Tullio, infatti, era ormai un latino imbalsamato e, volontariamente o no, Quintiliano ha fatto bene a non usarlo.


editus ab

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